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Investimenti ESG | Verde è chi verde fa

Dopo la guerra culturale scoppiata negli Stati Uniti, anche in Europa molti investitori si allontanano dagli investimenti ESG. E gli stati Ue diluiscono la prossima direttiva sui prodotti dichiarati eco-compatibili. Pragmatismo o capitolazione?

Tempi duri, per il fervore ambientalista. Secondo una ricerca di Barclays, gli investitori globali quest’anno hanno ritirato fondi per 40 miliardi di dollari da prodotti azionari etichettati come ESG, la triade della virtù (Environment, Social, Governance), di cui 14 miliardi nel solo mese di aprile. Alcuni fondi tematici sono stati colpiti dalla pessima performance di investimenti “verdi”, come ad esempio la cosiddetta clean energy, che ha pagato pesantemente la fase di forte rialzo dei tassi, l’inflazione sulle materie prime utilizzate nei processi di produzione (vedasi il caso delle turbine eoliche) oltre alle incertezze normative nella definizione di prezzi di generazione di elettricità. L’impatto avverso sul settore è stato amplificato dall’invasione russa dell’Ucraina, con il boom delle quotazioni dell’industria fossile.

ENERGIA PULITA AFFOSSATA DA GUERRA E INFLAZIONE

Ma i prodotti ESG non sono solo fondi tematici come l’energia pulita. Scandali hanno colpito società di gestione che disinvoltamente hanno appiccicato l’etichetta ESG a propri prodotti, in un contesto tassonomico oggettivamente incline alle ambiguità, oltre alla forsennata guerra culturale condotta dai Repubblicani americani contro ambientalismo e wokeism, visti come due facce della stessa medaglia. Ma ora l’onda di piena del disamoramento sta arrivando anche in Europa, e con essa i riscatti dai fondi azionari. Soprattutto di quelli che hanno inteso in senso più stretto il mandato ESG, privilegiando singoli comparti e produzioni rispetto a indici generali.

Meglio pare essere andata ai fondi obbligazionari “verdi”, quelli dove sono presenti emissioni di debito dedicato a cause di decarbonizzazione. In complesso, quindi, pare che la prima fase, quella dell’entusiasmo acritico verso tutto quello che l’acronimo rappresenta sia alle spalle, anche se il tema resta e dovrà quindi evolvere in modo coerente e pragmatico.

Ad esempio, prendendo atto e coscienza che i combustibili fossili resteranno con noi ancora per molto tempo perché necessari ad accompagnare la transizione, anche se bisognerà fare attenzione alla sottile linea di confine tra ruolo di supporto svolto dai combustibili fossili e tentativo di strangolamento in culla (o poco fuori) delle energie alternative. Servirà anche rimuovere pregiudizi ideologici contro il nucleare come energia di baseload a emissioni zero, anche se restano le forti perplessità per i tempi e i costi di realizzazione in Occidente, andando inoltre a verificare se quello dei piccoli reattori modulari è solo un bel miraggio.

Comunque vada, non mettiamo limiti alla provvidenza degli uffici marketing delle società di gestione. Che sono già in manovra per dare l’etichetta ESG al settore minerario, che nei fatti è strumentale allo sviluppo delle energie alternative, come detto. O comunque, in caso la tassonomia ESG diventasse tossica, a far passare il concetto sistemico dei processi di decarbonizzazione, dalla miniera alla pala eolica.

 

In questo quadro in evoluzione, le banche commerciali hanno e avranno un ruolo, sotto la guida delle banche centrali. La Federal Reserve di Jerome Powell ha già fatto sapere che non intende ingerirsi nelle politiche di finanziamento delle banche commerciali relative ai combustibili fossili. La Bce, che appare molto più incline a seguire un percorso attivista, dovrà valutare se quest’ultimo non rischi di causare una perdita aggiuntiva di competitività per i prestatori del nostro continente, spingendo le grandi aziende definitivamente tra le braccia degli americani, dopo l’Inflation Reduction Act.

CAMBIA IL CLIMA ANCHE IN EUROPA?

Ma nel frattempo, il clima che conta temporaneamente di più è quello politico in Europa, alla vigilia di una elezione del parlamento Ue che si preannuncia epocale, per il potenziale di svolta verso istanze sovraniste fortemente insofferenti agli oneri imposti dalla transizione climatica, vista come minaccia alla deindustrializzazione del continente e fonte di nuova burocrazia eterodiretta. Oltre che come cavallo di Troia della cultura woke.

In questo spirito del tempo, una maggioranza di paesi Ue spingono per diluire nuove regole mirate a impedire il greenwashing. Il Green Deal, la legge climatica dell’Unione che punta a raggiungere entro il 2050 emissioni nette a zero, è al centro di surriscaldati dibattiti elettorali e ha sin qui spinto la presidente uscente e aspirante rientrante della Commissione, Ursula von der Leyen, ad arretrare dalle posizioni originarie.

Gli stati membri puntano in maggioranza ad ammorbidire la direttiva sulle dichiarazioni ambientali aziendali (environmental claims), proposta nel 2023 per impedire che le aziende enfatizzassero senza fondamento le proprie credenziali eco-compatibili. Quelle affermazioni che, ad esempio, portano a stampigliare sulle confezioni dei prodotti la dicitura “100 per cento carbon neutral”, oppure “confezione realizzata al 50 per cento con materiali riciclati”.

La Commissione Ue ha scoperto che circa metà di queste affermazioni sono infondate o fuorvianti (sorpresona) e ha quindi deciso che, anche per tutelare i consumatori, servono regole di autenticità. Cioè norme aggiuntive. Cioè oneri. Che stanno mandando in fibrillazione le aziende e quindi i politici.

AMBIENTALISMO AUTOCERTIFICATO

Ecco quindi, riporta il Financial Times, che la reazione si sarebbe concretizzata nell’introduzione da parte degli stati membri di una “procedura semplificata”, che è difficile non definire autocertificazione, dei claim ambientali delle aziende sui propri prodotti, “per trovare un equilibrio tra la protezione dei consumatori e gli oneri amministrativi e finanziari in capo agli operatori economici”. Vaste programme. Pare che solo quattro paesi, tra cui Austria e Germania, si siano espressi contro questo annacquamento delle future norme.

Inoltre, gli stati membri pare prenderanno posizioni più concilianti rispetto al parlamento europeo (ma questa è stata sin qui tradizione), che ad esempio vorrebbe fortemente limitare le affermazioni aziendali di neutralità di carbonio basate sull’acquisto di crediti o piantare alberi.

Quindi, come si nota, pare che al momento in Occidente il pendolo si stia spostando in direzione di minor cogenza, anche normativa, degli imperativi ambientali. Se si tratterà di sano pragmatismo oppure di mossa suicida, dirà il tempo. Almeno, quello che ci è rimasto.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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